Do not try me, devil devil
Cannot buy me, devil devil
You won’t make a fool of me, oh no
What makes you so special special
to think I would ever settle
for that devious dance
between you and me devil devil
[Devil Devil – Milck]
«Alla fine, ogni storia è già stata scritta.»
Prologo
Erano la quattro e trenta di mattina del sette di Luglio ed Esme Farrell non aveva alcuna voglia di andare a dormire. La notte della Festa delle Stelle non esisteva la febbre del sabato sera a Tara.
Niente Devil Devil, nessun falò in spiaggia e tutti erano troppo impegnati per organizzare feste private.
L’unico segno di vita in tutto il centro città era l’Eden. Esme se ne stava fermo sul marciapiedi, a pochi passi dall’ingresso da almeno mezz’ora, ma non aveva ancora preso seriamente in considerazione la possibilità di entrare o di farsi vedere attraverso la vetrata. Sua madre – le piaceva guardarla quando non sapeva di essere osservata – era china sul bancone a contare l’incasso della nottata. Era un orario inconsueto per chiudere cassa, in anticipo di almeno un’ora, ma con la città ridotta in quello stato di letargo post-preparativi, Esme dubitava che fossero passati molti clienti.
Quando Esme si decise ad avvicinarsi, Eva ne avvertì la presenza, lo guardò e sorrise. Era sempre contenta quando l’andava a trovare sul posto di lavoro ed Esme non comprendeva il perché: la maggior parte delle volte che la cercava lo faceva per sfogarsi o per lagnarsi di qualcosa. Lamentarsi era il suo sport preferito immediatamente dopo quello di letto. Era quando quest’ultimo andava male che Esme andava a cercare qualche carezza materna e un paio di consigli.
E lei, Eva, conosceva le parole giuste da dirgli ancor prima che avesse finito di raccontare.
Se Esme non avesse saputo per certo che la donna più importante della sua vita fosse un vampiro, l’avrebbe accusata di stregoneria.
Varcò l’ingresso dell’Eden.
«Tanti auguri a me!» biascicò con la voce impastata di stanchezza e dai residui di una notte passata a divertirsi.
Eva scosse la testa, squadrando il figlio da cima a fondo.
«Tanti auguri a te» aggiunse, un cipiglio sollevato in un rimprovero accennato che tuttavia rimase lì. «Pensavo fossi già a casa a dormire.»
«Non scherziamo, è il mio compleanno! Non esisterà sonno per le prossime – Esme osservò l’orologio affisso sopra la cassa, assottigliando gli occhi – … le prossime diciotto ore» e fece una smorfia, riflettendo l’assurdità di quella decisione.
Mentre Eva accendeva la macchinetta del caffè e prendeva latte e bicchiere in gesti automatici, Esme si stiracchiò, per stravaccarsi sulla sua poltrona preferita, nel complesso una delle tante sparse per la sala da tè. Sopra la sua testa, tra gli intrichi di rami che decoravano il soffitto, i petali dei fiori erano ancora chiusi li uni sugli altri, tra le foglie verdi. Il profumo dell’Eden era sempre conciliante e tranquillizzante, tanto che quando Esme riaprì gli occhi Eva era seduta davanti a lui con il caffè latte pronto e un dolcetto con candelina.
«Diciotto ore, eh?» lo vezzeggiò la madre con una risatina. «Io direi che ora fai questa breve colazione e poi te ne torni a casa. Il tuo turno oggi lo coprirà Myrtle, so che a pranzo sei con Zach. A proposito, perché non è con te? Dove hai festeggiato finora?» Lo disse dall’alto di innumerevoli volte in cui i due erano arrivati insieme da una notte brava, perché tra Esme e Zach le cose avevano un modo tutto loro di essere: o arrivavano in coppia o avevano litigato. In quello strano legame tra di loro, più simile ai nodi improvvisati di un marinaio che non ha studiato, funzionava così. Nodi imbranati, a volte imbarazzanti, ma così intricati da non essere sciolti con facilità.
«Fammi indovinare…» riprese prima che potesse risponderle. «Avete avuto uno di quei litigi in cui tu urli, metti il muso e fai la vittima, mentre lui ti fissa in silenzio lasciandoti cuocere nel tuo brodo?»
Esme sbuffò. «Mi ha detto che era stanco…»
Dopo sua madre, Zach era la sola persona al mondo che poteva vantare l’abilità di comprenderlo. Alle volte, lo faceva tanto bene che Esme lo detestava, ma mai per davvero. Era difficile dare un’etichetta alla loro relazione: due compagni di giochi, poi innamorati, poi ex e ancora uniti da sentimenti irrisolti che non impedivano loro di essere amici. Esme affrontava la questione con una scrollata di spalle, non perché non gli importasse, ma perché Zach non ne parlava e, a modo loro, avevano raggiunto un equilibrio che stava bene a tutti e due.
Eva appoggiò la guancia al pugno chiuso, rivolgendogli un sorrisetto divertito. «Per te sarà sorprendente, Esme, ma anche ai lupi mannari capita di voler dormire.»
«Non senza di me!» ribatté Esme di slancio. «Non questa notte!»
Quello tra lui e Zach si poteva chiamare ancora un equilibrio se si lamentava ogni volta che la bilancia non pendeva a suo vantaggio?
Sul viso di Eva comparve un’espressione di finta sorpresa. «Oh! Vedo che qualcuno voleva festeggiare il suo compleanno già allo scoccare della mezzanotte!»
Esme incrociò le braccia e mise su il broncio. Sapeva di essere capriccioso, a tratti egoista ma aveva cercato sua madre per quello, no? Poteva essere il peggior amico, amante, quel-che-era quanto voleva, ed Eva lo avrebbe amato comunque. Non poteva dubitare di quello o sarebbe impazzito.
Sua madre era l’unica famiglia che gli rimaneva e Zach – nonostante Esme sapesse come rendersi detestabile quando voleva – non lo aveva ancora lasciato indietro.
«Beh…» Eva recuperò la cassetta blindata nascosta sotto il registro di cassa e prese a sistemarvi dentro l’incasso della nottata. «Se comincia a fare un po’ il prezioso, a te non può che fare bene.»
Esme sollevò la testa e la guardò scandalizzato. «Ma… Mamma!»
«Niente mamma! Sei viziato e Zach ne è in parte colpevole. Che cosa ti ha detto esattamente?»
«Una di quelle cose da lupo che io capisco solo a metà.»
Avere come amante un lupo mannaro era un gran vantaggio dal punto di vista sensoriale, ma Esme inciampava malamente in alcuni problemi di comunicazione quando quegli stessi sensi gli ricordavano che tra lui e Zach c’erano delle distanze incolmabili.
Eva inarcò un sopracciglio. «Puoi provare a ripeterlo, o hai cominciato a urlare prima ancor di ascoltare fino in fondo?»
«Ha detto che il mio odore è diverso!» esclamò Esme, col tono di chi riferisce una sciocchezza. «Ci stavamo divertendo e, di colpo, mi ha fissato come se non mi conoscesse e ha cominciato a blaterare che il mio odore gli sembrava quello di un estraneo.»
Eva sbatté le palpebre un paio di volte. «Esme, so che passi sotto la doccia almeno una volta al giorno, per poi sorvolare su tutta la routine estetica per cui occupi il bagno per ore, ma-»
«Mamma, non insultarmi» Esme la interruppe bruscamente. Aveva già ricevuto la sua dose di umiliazione quotidiana quando si era ritrovato steso sui sedili posteriori dell’auto di Zach a rispondere al suo sguardo disgustato. Non voleva più vedere un’espressione del genere sul suo viso. Mai più.
«Forse si è preso il raffreddore» propose Eva, colpendo il coperchio della cassetta blindata, che si richiuse con un rumore metallico. «Quando l’olfatto di un lupo è disturbato, anche solo per qualcosa di diverso nell’aria, soffrono una specie di cortocircuito, lo sai.»
Esme le lanciò un’occhiata obliqua. «Colpo di freddo? A Luglio?»
«Viviamo in nord Europa.»
«È un lupo mannaro, vive nei boschi!»
«Invece di cambiare discorso, perché non mi racconti dove sei stato tutta la notte?»
«Sono stato» iniziò, scivolando tra i suoi stessi pensieri nella speranza di acchiapparne uno sensato da poter gestire senza fregarsi «… alla baia. Finny voleva una mano con le ultime decorazioni lì in spiaggia per la Festa delle Stelle» Le mezze verità erano diventate il suo forte. «Non c’è molto da fare se tutti, tutti sono impegnati nei preparativi… mettermi al mondo un paio di giorni dopo, no eh? Invidio chi è nato a Natale.»
«Che amore che sei» rincarò sua madre, ingnorando l’ultima parte del discorso, chiaramente sviante. Aveva le sopracciglia così alte che gridavano “non ti credo”, ma non per questo insistette. «Vai ad aiutare i tuoi amici e non tua madre. Anche io avevo una bancarella da allestire.»
«Ti hanno aiutato Zach e Myrtle, che vuoi! Vi lamentate sempre che se ci metto mano io poi non trovate più nulla» e incrociò le braccia per partito preso, in quel suo misto di torto e ragione perenne.
Tuttavia, sua madre sapeva sempre come scavallare quelle scuse, fare il giro e scaccomatto. Le bastò premere le labbra in un bacio sulla sua guancia, con una dolcezza familiare che da sempre superava il freddo statico del suo corpo da vampiro.
Nella sua vita, Esme poteva contare varie tipologie di baci, di affetti e calori, e anche un miscuglio di questi. Da che aveva memoria, non ricordava di aver mai avuto problemi nel sentire addosso il tocco della pelle ghiacciata della madre. Era, anzi, l’unico tipo di calore, di affetto che riconoscesse con il nome di “mamma”.
«Ti sei perso di nuovo, amore?» Eva gli accarezzò il lato del viso, scostandogli il ciuffo azzurro. «Vai a casa a riposarti.»
Esme spinse la guancia in quella carezza per potersela godere tutta. Era pur sempre il sette Luglio ormai, era in pieno diritto di coccole, capricci e di affermare che avrebbe fatto questo e quello, senza soffrire lamentele. Era come un immotivato giorno di rivalsa, come se il mondo in quelle ventiquattro ore dovesse estinguere un perenne debito nei suoi confronti.
«Non mi dai il mio regalo prima?» si crucciò teatrale il ragazzo, senza staccarsi dal palmo materno.
«Sta a casa, vicino alla mia carta di credito per il pranzo e un acquisto online da una delle tue wishlist. Fanne buon uso e non farmene pentire.»
Esme le saltò al collo in uno slancio di sincera euforia. Se da un lato si sentì più esausto che mai, dall’altro lo ricaricò.
«Hai salvato il sette Luglio ancora una volta!»
«Ricorda che ci paghiamo le bollette con quei soldi, ora fila a casa a dormire.»
«Ho un limite?»
«Quello del buon senso.»
Il sorriso di Esme andava da orecchio a orecchio, mentre si avviava alla porta. L’alba stava iniziando a tinteggiare l’Eden. «Ci vediamo stasera! Voglio la torta!»
«Smamma, eri meno pretenzioso quando avevi sei anni.»
«Ti voglio bene!»
«Anche io.»
Il campannellino della porta siglò quel breve siparietto e ripristinò il silenzio per una mezz’oretta che Eva passò a sorridere a niente in particolare, mentre preparava gli ultimi filtri personalizzati per la Festa delle Stelle, riempiendo la sala da tè di profumi dal delicato all’esotico. Quando la porta si aprì di nuovo, portò con sé anche il tepore della nuova nascente giornata.
«Esme ha prenotato allo Chateau Papillon.»
Zachary Reinhart (più Beaumont all’anagrafe) si presentò con la faccia di uno che ha appena ascoltato un bambino rintronargli le orecchie su cose senza senso, che era anche un’accurata descrizione del suo ex. «Afferma che offri tu.»
«Non mi ero davvero illusa che ti avrebbe proposto il menù fisso al Grillsmith. Non sentirti obbligato, mangia quello che ti va, sapevo a cosa andavo incontro lasciandogli la carta. Si è cantato tanti auguri da solo?»
Bastò lo sguardo esasperato e rivolto al soffitto del nuovo arrivato per confermare. Eva non riuscì a non trovarlo divertente. «Avanti, ci sono poche cose da fare, ma ti aiuteranno a caricare le batterie della pazienza fino alle undici, dopo ti tocca» ridacchiò, seguendo Zach con lo sguardo mentre passava dietro al bancone e si infilava il grembiule dell’Eden. «Non credo ti ringrazierò mai abbastanza di sopportare e amare Esme così tanto.»
Anche se i movimenti del ragazzo nel chiudersi le stringhe dietro la schiena rallentarono, Zach non cedette all’amarezza di quella parola. Eva lo stava dicendo con sincerità, e per quanto Zach continuasse giornalmente ad accumulare terra su quei sentimenti, nulla li rendeva meno reali, meno caldi nonostante gli sforzi. Stava tutto nell’accettare il quadro spigoloso della realtà.
«È uno stronzo» rispose, con altrettanta sincerità, perché era vero quanto il sole che sorgeva che Esme lo fosse. «Ma non posso lasciarlo solo. Non si sa allacciare le scarpe.»
«Giuro che gli è stato insegnato» replicò Eva con un iniziale tono ilare, che andò spegnendosi all’affiorare di un ricordo di cui Zach poté osservare solo gli effetti malinconici nel suo sguardo lontano. Era pur sempre il sette di Luglio, lo sapeva anche lui cosa significasse. Era spaccare a metà la famosa medaglia della metafora come un frutto maturo e osservarne il dritto e il rovescio insieme, mentre le parti sanguinavano scelte giuste, sbagliate ed evitabili. Il sette di Luglio, per Esme ed Eva, era una partita al gioco dell’oca; finire su una casella trappola era un attimo, affondare in un passato non voluto un lancio di dadi sfortunato.
Fin da bambino, ed essendo arrivato a giochi fatti, Zach era cresciuto inseguendo quegli sguardi da parte di entrambi, chiedendosi i retroscena, quale pellicola la loro memoria proiettasse. Come in quel momento. Chi aveva insegnato a Esme ad allacciarsi le scarpe?
«Finisco di chiudere le scatole in magazzino e te le carico in macchina, va bene?» disse per smorzare la tensione.
Eva annuì, ringraziandolo.
La vera mattinata sarebbe iniziata di lì a un’oretta, forse due. Era domenica, era un giorno di festa per l’intera Tara, ma gli abitué si chiamavano così per un motivo, per questo quando il campanello della porta suonò di nuovo Eva non fu troppo sorpresa. Lo rimase, soprappensiero, quando si accorse di chi fosse entrato.
«Un momento» biascicò, un pennarello tenuto tra i denti – mostrando i suoi canini – le mani impicciate nelle fatture e nelle bollette. «Sei tornato! Un po’ presto per essere di nuovo in piedi?» lo disse con la bocca libera, usando il pennarello su uno dei fogli che stava sistemando. «Zach è di là se lo cerchi, mi ha detto che hai prenotato allo Chateau. Non commenterò, ma la prossima volta portaci anche me. Ah, e prima che mi dimentichi, ho chiamato Charlotte, porterà la torta alla Festa delle Stelle, così ce la mangeremo tutti insieme-»
«Ciao mamma.»
Il pennarello di Eva si fermò e non completò mai il cerchio iniziato intorno a una data di scadenza. La donna alzò il volto in un scatto, lasciando andare tutto quello che aveva in mano.
La luce del sole ora attraversava le finestre e colpiva il ragazzo alle spalle. I capelli erano sciolti, ricci e senza tracce di blu. Per il resto, sarebbe potuto essere Esme. Stessi occhi, stesso taglio, la curva del naso accennata, le labbra…
Se Eva avesse respirato aria come qualche secolo prima, in quel momento la sua gola avrebbe bruciato per il respiro interrotto.
«Ez… Ezra.»
Se c’erano rumori, Eva non avvertiva più nulla, neanche il battito del cuore nel petto del suo primo figlio nonostante fosse ad appena tre metri da lei e non più a una distanza inquantificabile. Era sempre stato così vicino?
Sotto l’occhiata affilata di quel ragazzo che non era Esme, anni di silenzi sembrarono crollarle dentro, con un fracasso tale da farla irrigidire per i sensi di colpa. Si era distratta e il tempo era passato, riempiendosi come una rete da pesca di sentimenti, parole non dette, messaggi mai mandati, sempre più pesanti, scivolosi, agitati eppure muti. Più di dieci anni, che per la sua natura sarebbero potuti essere un battito di ciglia, se non li avesse riempiti crescendo un figlio, ma mettendo da parte l’altro. Fugace, il motivo per cui fosse successo si posizionò su uno dei piatti della bilancia, mentre il perché avesse aspettato tanto per contattarlo – e avrebbe continuato a farlo probabilmente – si posizionò sull’altro. Dopo dieci anni, solo una cosa poteva avere valore.
«Ezra» si avvicinò a lui e lo ripeté, ed era un suono famigliare ma a cui non era più abituata, un ricordo che riaffiorava. Poteva riconoscere in quegli occhi gli stessi del bambino che andava via mano nella mano con il padre, insieme a tante, troppe cose che non riconobbe e che per prime lo differenziarono da Esme, oltre quei capelli ribelli. «Sei… Stai bene?» e allungò la mano per scostare un riccio.
Ezra si ritrasse. Non lo fece di scatto e non lo fece con repulsione, ma in un movimento lento, discreto, scivolando indietro e lontano da quel contatto per cui ancora non era arrivato il momento. La sua aura emanava tempesta, sigillata in una bottiglia di vetro, in attesa che qualcuno ne togliesse il tappo o accidentalmente la rompesse.
«Sono tornato» disse, senza distogliere lo sguardo. Lasciò andare lo zaino che teneva in mano, che toccò il pavimento con un tonfo più pesante dell’apparenza. «Sono tornato per restare» aggiunse.
L’Eden non era proprio come Ezra lo ricordava: gli sembrava più piccolo.
Eva lo aveva fatto accomodare a uno dei tavolini al centro della sala, dove l’odore di fiori era troppo forte per i suoi sensi stressati dal jet-lag.
«Sei atterrato a Dublino?» domandò Eva, sedendosi di fronte a lui.
«Sì e sono venuto qui con il bus.»
Lei sorrideva, era contenta di vederlo, ma c’era una sfumatura d’imbarazzo in quella felicità. Sembravano due parenti lontani che si erano incontrati per caso.
«Da dove arrivi?»
«New York…»
«Oh, la grande mela!» Esclamò Eva con entusiasmo. «Ho dei bei ricordi di quella città. Ci ho vissuto un bel periodo negli anni venti… O forse erano i tren-»
«Papà non ti ha avvisato che venivo?» domandò Ezra interrompendola.
«Non preoccuparti.»
Eva allungò la mano sul tavolino per coprire la sua. «Questa è anche casa tua, sei libero di venire e restare quanto vuoi.»
Ezra fissò la mano di lei, le pelle candida, le dita affusolate e le unghie curate.
«Non mi ricordo nemmeno qual è la mia camera» disse, facendo scivolare il palmo sotto il tavolino rifiutando l’affetto di Eva per la seconda volta. Lei dovette capire l’antifona perché il suo sguardo perse di luminosità e si fece indietro fino ad appoggiarsi allo schienale della sedia.
«Non hai un bagaglio» notò.
«Papà mi ha messo sul primo volo disponibile e ha detto che avrebbe spedito le mie cose.»
«Non c’è problema, puoi usare i vestiti di Esme fino a che non arriveranno i tuoi.»
A Ezra vennero i brividi al solo pensiero, ma non era il caso che lei lo sapesse. Era lui l’intruso e non aveva il diritto di pretendere nulla o lamentarsi di alcunché. Eva poteva illuderlo del contrario quanto voleva ma Tara non era casa sua, nessun posto nel mondo lo era.
«Gli occhiali ti stanno bene» commentò Eva con tenerezza.
Solo una mamma poteva dirgli una cosa del genere. Ezra sapeva che le lenti erano troppo grandi per il suo viso ma erano comodi e la praticità aveva sempre avuto la meglio sull’estetica per lui. Tutto il contrario di Esme.
«Per fortuna, tuo fratello ha pochi problemi con la vista. Si distruggerebbe gli occhi pur di non portare gli occhiali tutto il giorno» raccontò Eva. «Vederlo andare in giro con gli occhiali è un segno d’allarme: di solito lo fa strettamente dentro casa, nei giorni in cui decide di essere in guerra col resto del mondo. Solo per un periodo li ha portati con piacere ma c’era di mezzo un ragazzo e-»
Ezra non voleva essere tanto scortese da zittirla una seconda volta. Eva tecnicamente era sua madre ma in pratica era una donna che non lo vedeva da dieci anni e che non era in grado di distinguerlo da suo fratello gemello. Secondo i costumi sociali doveva amarlo incondizionatamente e il suo affetto non sarebbe mutato se lui si fosse mostrato arrabbiato con lei, con suo padre, con chiunque fosse responsabile per il suo ritorno a Tara. Tuttavia, Ezra era troppo stanco per valutare quanto fosse ampio il suo raggio di azione con lei, così la lasciò parlare di Esme, di quanto suo fratello fosse fantastico pur essendo un totale disastro, ma non ascoltò nemmeno una parola.
Il suo sguardo si estraniò e scivolò oltre la spalla di Eva, al ragazzo dietro il bancone intento a fare non sapeva cosa. Non era umano, lo aveva capito in fretta, ma non era stato abbastanza attento da afferrare il suo nome. La sua occhiata curiosa fu di breve durata: gli occhi del giovane incontrarono i suoi ed Ezra fu investito da un’ondata di disprezzo che non si seppe spiegare. Non abbassò il viso, si limitò a inarcare un sopracciglio in un’espressione che voleva dire: che cazzo vuoi?
Eva se ne accorse e smise di parlare. «Qualcosa non va?» Non aspettò che il figlio rispondesse, si voltò. «Zach, tesoro, prepareresti una tazza di té per Ezra?»
Zach. Ezra ripeté quel nome nella sua testa, pensò ai volti dei bambini che aveva incontrato a Tara durante la sua infanzia. No, non lo conosceva.
«L’Earl Grey è ancora il tuo preferito, giusto?» si informò Eva.
Ezra tornò a guardarla. «Non voglio niente, grazie.»
«Tesoro, hai fatto un lungo viaggio e chissà quando è stata l’ultima volta che hai mangiato! Il jet-lag ti sta torturando, vero? Qualcosa di caldo ti farà be-»
«Non voglio niente.»
Ezra non urlò, ma fu tanto fermo e gelido che il sorriso di Eva sparì istantaneamente.
Da dietro il bancone, Zach emise un ringhio gutturale, come un cane da guardia pronto a difendere il proprio padrone.
Eva fu più veloce a intervenire: «Zach, ti dispiacerebbe andare nel magazzino e controllare le scorte? Ho già selezionato i prodotti da portare alla festa, ma voglio essere sicura di avere le spalle coperte in caso di sold-out.»
Gli occhi di Zach non lasciarono andare Ezra fino a che non scomparve dietro la porta che portava sul retro del locale.
«È un lupo mannaro?» domandò quest’ultimo.
Eva annuì. «Bravo. Sei lontano da Tara da più di dieci anni ma non hai perso l’occhio.»
«Ci sono creature soprannaturali anche nel resto del mondo» ribatté Ezra.
Eva si alzò in piedi. «Ma nessun posto è come questo.»
Riavvicinò la sedia al tavolino ma non si allontanò. «Vai ad accomodarti di là» aggiunse, indicando la zona delle poltrone con un cenno del capo. «Scegli quella col poggiapiedi così puoi stendere le gambe. Esme ci si addormenta qualche volta e tu devi essere sfinito. Ti faccio qualcosa di caldo.»
«Ho detto che non voglio-»
«Ezra, lascia che mi prenda cura di te» insistette Eva. «Non sono stata tua madre per dieci anni e il tempo non si recupera, te lo dice qualcuno che di tempo ne ha avuto tanto.»
Eva fece il giro del tavolino e infilò le dita tra i riccioli ribelli di Ezra. Lui la lasciò fare e sollevò il viso per incontrare il suo sguardo.
«Nessuno ti vieta di essere arrabbiato, sarebbe strano il contrario, ma lascia che ti ami.»
Eva si chinò e posò un bacio sulla fronte di suo figlio. «Buon compleanno, Ezra.»
Bip.
Bip.
Bip. Bip.
Bip. Bip. Bip. Bi-
Esme recuperò il cellulare frugando tra le lenzuola del letto, riempiendo l’aria di versi sconnessi ma irritanti. La stanza era tiepida e completamente immersa nel buio, così che quando il display dello smartphone si accese, fu come un fascio di luce alieno da film sci-fi. Esme brontolò di nuovo, cercando un’angolatura con cui mettere a fuoco i messaggi senza accecarsi, le palpebre strizzate al limite. Finny. 26 messaggi non letti. Il ragazzo gemette come se l’avessero trafitto e ributtò il cellulare sul letto, afferrando un cuscino da stringere e voltandosi per riprendere sonno. Neanche due minuti e suonò la sveglia con Wake me up di Avicii.
Feeling my way through the darkness, guided by a beating heart, I can’t tell where the journey will end, but I know where to start.
«Che palle, mi alzo» lagnò tra sé Esme sovrastando la strofa che era anche il suo mantra mattutino. La canzone continuò a suonare e il cellulare a incalzare con la sveglia, seguendo un’escalation tecnologica tarata sull’alzare il volume e le vibrazioni nel tentativo di risvegliare anche i comatosi.
«They say I’m caught up in a dream, well life will pass me by if I don’t open up my eyes, well that’s fine by me» canticchiò Esme, stiracchiandosi e passandosi le mani nei capelli schiacciati. Si mosse al buio, conoscendo i passi da calcare per non finire contro alcun mobile o inciampare nel tappeto. Alla finestra, scostò la pesantissima tenda di pochi centimetri, rimanendo di lato. La luce del sole entrò come un fendente nel ventre, illuminando in una striscia sola una porzione di pavimento, letto e la parete dall’altro lato. Esme osservò quei dettagli mentre le sue pupille si riabituavano alla potenza del creato, prima di buttare un occhio fuori e constatare che era una giornata da fotografia estiva. In sottofondo la canzone ancora suonava e lui si grattò l’interno dell’avambraccio, iniziando ad avere i primi scontri tra pensieri.
So wake me up when it’s all over, when I’m wiser and I’m older, all this time I was finding myself, and I didn’t know I was lost.
Ricapitolò. Era il suo compleanno, era la Festa delle Stelle, due fattori che insieme dovevano significare divertimento senza inibizioni, ma il letto alle sue spalle esercitava un magnetismo che la parte saggia della sua testa stava prendendo in considerazione di nuovo. Aveva dormito meno di cinque ore, rimanendo a scorrere twitter, instagram e chattando con uno sconosciuto di Berlino che aveva flirtato a tutto spiano nella speranza di convincerlo a mandargli selfie nudi. Alla fine una foto l’aveva spedita, ma al suo amante della sera precedente, per poi addormentarsi tentando di far riaffiorare il sapore del sesso. Anche in quel momento, appena sveglio, con la consapevolezza che fosse successo meno di dieci ore prima – e che avesse bisogno di farsi una seconda doccia – appariva un ricordo molto più lontano.
I wish that I could stay forever this young, not afraid to close my eyes, life’s a game made for everyone, and love is a prize.
Contemporaneamente cercò di alleviare il fastidio all’avambraccio e di prendere in mano il cellulare per spegnere la sveglia. Con uno sbuffo si concentrò solo sull’ultima azione, facendo tornare il silenzio nella camera. Durò solo per pochi secondi, quando un altro bip fece riapparire la chat di Finny che era arrivato a 42 messaggi. Li ignorò silenziando la conversazione, andando invece a cercare quella nominata Occhi Neri, dove il suo ultimo scatto notturno appariva visionato, ma senza risposta. La foto, che giaceva sullo sfondo con unicorni multicolor in posizioni del kamasutra, gli diede per un attimo l’idea di qualcosa di infantile e stupido, ma fu solo un pensiero momentaneo. Esme ripeté a se stesso che era il sacro giorno del suo compleanno; qualsiasi cosa avesse detto o fatto c’era una legittimità verticale che lo riparava da qualunque affermazione controcorrente che non lo incoronasse star della giornata.
Sulla scia di quella rinnovata baldanza, digitò alla svelta un “Good morning daddy! Non mi hai sculacciato abbastanza ieri sera, sono molto contrariato. Fammi un regalo!! 😡” e poi impostò il blocco notifiche per un’ora.
Si sentì rinvigorito dalla prima azione della giornata. La seconda sarebbe stata raggiungere la cucina e poi il bagno e tornare splendido. Avviò la sua playlist delle routine casalinghe che partì con Sugar dei Maroon 5.
Uscì dalla stanza di Eva mimando le parole della canzone e lasciandosi guidare dal ritmo. Quando era tornato all’alba, era salito in camera propria, si era liberato dei jeans e dei calzini, per poi guardarsi intorno, scuotere la testa, e decidere che il letto della madre sarebbe stato più confortevole per dormire, nella completa oscurità che solo una stanza pensata per un vampiro poteva dare.
Voltò dal corridoio alla cucina e il suo canticchiare scemò muto a Yes, please quando si ritrovò davanti Zach, che gli diede un’occhiata da cima a fondo prima di voltarsi e tornare a dare attenzione alla macchina del caffè.
«Buongiorno Esme, sei magnifico come tutte le mattine, la tua aura di compleanno è così accecante che devo distogliere lo sguardo» scimmiottò il festeggiato, colmando la distanza che lo separava dall’ex, la musica che chiassosa usciva distorta dal cellulare. Ne cercò lo sguardo, continuando. «Non senti l’irrefrenabile impulso di cantarmi tanti auguri?»
Zach lo ignorò, il caffè che scendeva nella brocca di vetro era l’attuale centro del suo mondo. «Ti ho fatto gli auguri stanotte» replicò di cattivo umore. «Aumenta gli anni nel cervello, oltre che sulla carta.»
Che fosse così scorbutico non era una novità, ma Esme lo sentì irritato in modo diverso. Stava per chiedergli Che è successo? quando l’invisibile spirito guida del suo compleanno gli sussurrò qualcosa di riassumibile in Hakuna MaFuckit. Optò per un altro approccio, riportandosi il cellulare sotto il naso, scorrendo la playlist e preparandosi a cantare contando il tempo delle prime note.
«You are somebody that I don’t know, but you’re takin’ shots at me like it’s Patrón, and I’m just like, damn, it’s 7 AM» e sottolineò il tutto con uno sguardo significativo da bitch, please.
Zach si massaggiò le tempie con una mano, nascondendo il viso nel palmo. La cosa che gli stava ribollendo sottopelle, cercando un punto per uscire, fu spinta da parte dal semplice essere se stesso di Esme. Più devastante e coinvolgente di un uragano. Coinvolgente inteso come eufemismo.
«Non sono le sette, deficiente, è mezzogiorno» e Zach lo disse sbattendo sul bancone due tazze che riempì di caffè. «Se non ti conoscessi vorrebbe dire che la mia vita sarebbe più facile.» All’Ehi! di protesta di Esme non prestò la minima attenzione, aprendo e chiudendo il frigo in gesti meccanici, prendendo il latte e diluendo uno dei due caffè. «E stasera mi paghi tre shot di Patrón nella remota speranza che servano a non sentirti lagnare.»
La Swift era arrivata a cantare il ritornello So oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh, oh-oh ed era perfetto per la faccia oltraggiata di Esme.
«È il mio-»
«Auguri» e la tazza col caffè latte incontrò di nuovo la superficie dura del bancone rimanendo intatta per forze oscure. «Ma non ti stanchi di ripeterlo? Bevi. E poi vai a vestirti…» intanto che la canzone finiva, anche l’esasperazione di Zach si mitigò, mentre la punta del suo naso guizzava. Esme posò il cellulare e agguantò al volo la tazza, tuffandoci il viso in un tentativo di ignorare quel segnale che conosceva.
«Dove sei stato dopo che-» Zach si interruppe, il caffè sospeso, l’espressione che ci stava ripensando sul formulare la domanda.
«Dopo che mi hai scaricato la sera del mio compleanno» terminò l’altro, senza alcuna vena particolare, anche troppo piatta per il discorso. «Che ti importa.»
«Non mi piace l’odore che hai addosso.»
«Che novità, non te ne piace mai nessuno, neanche quello del mio bagnoschiuma. Questa si chiama gelosia.»
«Esme»
«Fatti miei» tagliò corto, ma poi la sua lingua fu più loquace dei suoi pensieri. «Qualcun altro si è divertito a festeggiarmi.»
«Sei un bugiardo.»
Esme lo sapeva che non c’era stato nessun “buon compleanno” dopo Zach, la sera prima, ma non confermò né mentì. Era già stato umiliante essere allontanato con quella storia dell’”odore estraneo”. Zach e quel suo stupido fiuto da lupo mannaro che rovinava tutto.
«Se hai finito di trattarmi bene, vado a prepararmi. Ma vorrei ricordarti che sono io che offro oggi.»
«Sarò io quello che non ti abbandonerà sul ciglio della strada.»
«Disse il cane.»
Esme sgusciò via ed evitò per un pelo uno scappellotto.
Esme sentì dal bagno che la musica era cambiata. Una cover di Zombie rimbombava sulle pareti e la cantò tra sé mentre si infilava l’accappatoio e si frizionava i capelli, per poi raggiungere Zach in camera sua. Curiosamente, lo trovò con in mano uno dei vecchi album di foto.
«Che cosa guardi?»
La cosa più sorprendente fu che Zach non si fosse accorto del suo rientro e le sue spalle ebbero un lieve sussulto. Dissimulò scuotendo la testa e alzandosi dal letto. «Cercavo di ricordarmi come fossi da piccolo e innocente» rispose blando, superandolo per rimettere a posto l’album nella libreria.
Esme roteò gli occhi, e decise di giocare un’altra carta. Abbandonò l’accappatoio sul copriletto, si abbassò l’asciugamano sulle spalle e si avvicinò a Zach mentre si voltava.
«Sei strano» buttò lì, incrociando le braccia e tirando appena indietro la schiena, così da lasciare il proprio corpo nudo ben in vista, anche se presumeva che il segno del morso nell’interno coscia sarebbe rimasto un piccolo segreto tra sé e il suo amante della notte precedente.
«Vestiti, idiota.»
Zach lo guardò dritto in faccia e poteva dare l’idea di qualcuno a cui quella messa in mostra non sortisse effetti, ma Esme conosceva la rigidità dei suoi zigomi. Dodici anni di amicizia, in cui erano stati amici, compagni, amanti, una coppia, scopa-amici occasionali, ti davano quei vantaggi a doppia lama.
«Sei nervoso e pretendi di comportarti come se non lo fossi, continuando a insultarmi.»
Giusto perché Esme stava pian piano risalendo il bandolo della matassa nella direzione giusta, Zach si trovò a non rispondere, o avrebbe solo finito per sottolineare il suo ragionamento.
Fu Esme stesso a toglierlo di impiccio e a cacciarlo in un altro, spingendosi in avanti a baciarlo, assicurandosi anche di premersi per intero contro di lui.
«C’è un metodo infallibile per scaricare il nervosismo» gli sussurrò il festeggiato contro le labbra, ancora a occhi chiusi, le braccia intorno al suo collo.
Zach, le mani poggiate sui fianchi dell’ex, grugnì, coprendo i propri tentennamenti. Cedere era questione di istanti. La sera prima lo aveva rifiutato perché i suoi sensi avevano captato qualcosa di sbagliato. Lo aveva chiamato odore sulle prime, mentre allontanava Esme. Era abituato a sentire la presenza di altri addosso al suo ex – o non si sarebbe chiamato tale. Nulla che gli avesse dato fastidio più di una gelosia con cui ormai aveva imparato a convivere. Si trattava di un sentore, invece, quello che li aveva disturbati la sera prima e gli aveva fatto calare qualsiasi libido. Un sentore che ora aveva un nome e una faccia odiosamente uguale a quella di Esme.
Prese quella constatazione come fune di fuga dalla situazione, e colpì la fronte di Esme con la propria, con frustrazione e parte di una rabbia sterile raccolta negli anni verso un individuo che era passato dall’essere l’aiuto antagonista di una favola per bambini, a un fantasma, e ora una persona concreta.
«AHIA» sbottò Esme, tirandosi indietro. Si coprì il punto leso con entrambe le mani, piegandosi su se stesso. «Ma che cazzo di problemi hai!?»
Anche Zach si trovò a premere le dita sulla fronte, constatando di aver esagerato, ma si prese il vantaggio.
«Le tue frasi fatte del cavolo! E vestiti, Cristo, vogliamo andare a mangiare!?»
Esme aveva messo su il muso, oltre a un dito medio, ma lasciò perdere e iniziò a smontare l’armadio, rimbrottando l’altro a voce alta, ma senza essere degnato di attenzioni. Zach tornò a sedersi sul letto, scostando i pezzi di carta che una volta erano stati un pacco regalo e a cui prima non aveva fatto caso. In mezzo c’era una maglietta, riepiegata alla bell’e meglio. A caratteri evidenti c’era scritto My mommy sucks blood from my enemies. Senza dubbi il regalo di Eva, che era capace di tirare fuori un umorismo inaspettato quando si trattava di Esme. Non gradito, e inevitabile, Zach si chiese se era lo stesso anche nei confronti dell’altro figlio.
«E ti sei rabbuiato di nuovo. Non hai diritto di contestare il regalo di mia madre.»
Esme, ora in jeans chiari e attillati, con l’elastico delle mutande in mostra che dichiarava I’m your type, gliela strappò di mano, ma non andò lontano. Rimase in piedi, la fronte aggrottata, a scandagliare il viso dell’altro. «Senti, non ho i tuoi sensi da creatura della notte, che diavolo è successo? Non vuoi venire allo Chateau? O riguarda davvero il tizio con cui sono stato ieri?»
Zach la prese larga, ma con l’intento di non svicolare più dal discorso. Anche se non voleva essere lui l’ambasciatore di quelle notizie.
«Eva ti ha chiamato?»
Esme scosse la testa, facendo spallucce. «Problemi all’Eden? Devi lavorare?»
«No.» La risposta fu secca e ne seguì solo un prolungato silenzio che Zach impiegò per capire come andare al nocciolo. Tuo fratello è tornato. Si è fatto vivo stamattina all’Eden. È identico a te. Era facile. Il difficile sarebbe stato poi raccogliere Esme. O contenerlo. O impedire che si autodistruggesse.
Gli occhi di Zach seguirono la linea del suo braccio sinistro, fino all’interno. Le incisioni che componevano le parole ti odio erano più chiare e in rilievo. Era una cicartrice piccola, bastava il cinturino di un orologio o un po’ dei braccialetti di Esme per coprirla. Ma esisteva, testimone di un passato di cui Zach odiava conoscere solo i fiori ma non le radici.
«Mi stai facendo preoccupare» sbottò Esme, girandosi e tornando all’armadio e afferrando la maglietta azzurra con stampato sopra il finto gilet. «E non voglio preoccuparmi proprio di niente, è il mio compleanno! Niente lavoro, niente prediche, solo festeggiamenti!» Quando si voltò, Zach lo stava guardando con un’espressione indecifrabile. Era qualcosa di nuovo nella loro relazione, che neanche i dodici anni che avevano alle spalle aiutarono Esme a scomporla e afferrarla. La tensione nella stanza era così compatta che la musica era un di più dissonante.
«Siediti un attimo» disse Zach, con sguardo incerto.
Esme lo fece, guardingo, e iniziò anche a straparlare, mettendo distanza a quello di cui forse non era più poi tanto sicuro di voler sentire la risposta.
«Stai male? No, aspetta… Hai trovato qualcuno? Lo so che è finita tra di noi, sono stato io a chiedertelo, è per questo che non vuoi più toccarmi? Lo conosco? O la conosco? Se è una ragazza me ne farò una ragione, davvero. Nessuna battutina. Zera lo sa? E perché l’hai detto prima a mia madre? Cioè, lo so che andate d’accordo, e lei ti considera parte della famiglia, però penso che dovrei essere io il primo a sapere se sta-mmmmppppfffhhh-»
Zach gli tappò la bocca con una mano. Il senso di frustrazione era appena sbocciato di nuovo nell’esasperazione, e quando disse ciò che tanto gli stava dando pensiero, lo fece in maniera diversa da come si era prospettato. Con Esme le cose andavano così: potevi dire di conoscerlo, ma era come giocare a dadi col destino. Lui scombinava sempre la partita.
«Tuo fratello Ezra è tornato. Era all’Eden, stamattina. Ho idea che sia arrivato per restare. E se mai trovassi qualcun altro impedirò qualsiasi contatto tra di voi, per il suo bene.»
Ezra stava dormendo sulla poltrona, quando Myrtle Bryne varcò l’ingresso dell’Eden e sorprese Eva che lo guardava con un misto d’incanto e malinconia.
«Mia cara» richiamò la sua attenzione Myrtle. «Sei ancora qui.»
Eva accennò un sorriso, premendosi l’indice contro le labbra per invitare l’anziana amica a parlare a voce più bassa.
«Sono stata trattenuta» spiegò Eva. «Ma qualcosa mi dice che questo tu lo sapevi già» aggiunse, tornando a guardare il figlio addormentato.
Myrtle le appoggiò una mano sulla spalla. «Le carte sono inquiete da un po’. Pareva che Tara fosse in attesa di qualcosa» raccontò, col tono di qualcuno che sapeva più di quello che diceva. «Immagino che abbiamo scoperto cosa.»
«È bellissimo, vero?» domandò Eva, con gli occhi brillanti di una mamma innamorata.
Myrtle guardò il ragazzo che dormiva con le braccia incrociate contro il petto, i capelli ricciuti sparati in ogni direzione, gli occhiali storti sul naso e un rivolo di bava che gli colava lungo il mento. «Sì, lo è» disse, per poi aggiungere subito: «ma tu non puoi rimanere a fissarlo qui incantata fino a che non si sveglia: la notte è già finita. Dov’è Zach?»
«L’ho mandato ad allestire il banco alla fiera. Quando avrà finito, andrà da Esme. Non era il caso che rimanesse qui dentro.»
«Posso immaginarlo.»
Eva prese un respiro profondo e si avvicinò di un passo alla poltrona. «Lo sveglio e lo porto a casa.»
«No, mia cara» la fermò Myrtle. «Rimani a riposare nella stanza sul retro per oggi, penso io a svegliarti in tempo per la festa. Nel frattempo, tengo d’occhio Ezra per te.»
Stanca com’era per la notte di lavoro e per le emozioni che gli ultimi avvenimenti le avevano provocato, Eva non prese nemmeno in considerazione la possibilità di obiettare. «D’accordo…»
Per il resto della mattina si videro pochi clienti. Solo uno disse qualcosa riguardo al ragazzo addormentato in poltrona: un giovane con una cartella da professore appesa alla spalla e una giacca troppo pesante per la stagione.
«Esme sta bene?» domandò a Myrtle, dopo aver ordinato un caffè nero da portar via.
«Non è Esme» rispose l’anziana signora. «Si tratta di suo fratello: Ezra.»
Un’espressione perplessa comparve sul viso del giovane uomo ma non fece ulteriori domande.
«Ci vediamo alla festa di stasera, signor Venedict?»
«Farò una passeggiata dopo cena» rispose Bastian. Ritirò il suo ordine e se ne andò dopo aver augurato a Myrtle una buona giornata.
Il silenzio che seguì ebbe vita breve.
«Ci somigliamo così tanto che la gente proprio non riesce a distinguerci?»
Myrtle finì di riporre le banconote nel registro di cassa. «Siete gemelli, Ezra» disse, sollevando lo sguardo. Da dove era, poteva vedere solo lo schienale della poltrona. Ezra non la fece aspettare molto, si sporse in avanti e lanciò all’anziana donna un’occhiata da uomo duro e sicuro, ma quei capelli ribelli e gli occhiali troppo grandi per il suo viso lo facevano sembrava così giovane da essere tenero.
«Esme non è come me» disse, esaurendo la distanza tra la poltrona e il bancone. «È quanto di più diverso ci sia da me.»
Non si sedette su uno degli sgabelli, ma appoggiò i gomiti sulla superficie di legno lucido e guardò la donna negli occhi. I lunghi capelli argentei erano raccolti elegantemente sulla nuca e l’abito blu che aveva addosso era sobrio ma di classe. Suo malgrado, Ezra sorrise. «Non sei cambiata affatto, zia Myrtle.»
Myrtle sorrise. «Ti ricordi di me.»
Ne era felice.
Ezra scrollò le spalle. «È difficile dimenticarsi dell’unica adulta responsabile della mia infanzia.»
Myrtle sospirò, poggiando entrambi i palmi sul bancone. «Non essere così duro con i tuoi genitori. Ho visto Eva con Esme in questi anni e sono sicura che Lucan-»
«Non ho detto che non voglio bene a mio padre» la interruppe Ezra, con tono incolore. «Tuttavia, questo non fa di lui un uomo responsabile. È solo un padre che ha fatto del suo meglio.»
«Solo?» Myrtle si sporse verso di lui. «Non dare per scontato l’amore e la dedizione di un genitore verso i propri figli, Ezra. Non tutti i padri sono in grado di dare affetto.»
«Nemmeno le madri» replicò Ezra, secco.
Myrtle si sentì gelare, abbassò lo sguardo per un istante e decise di cambiare argomento. «Sono onorata che non usi monosillabi con me, ma sarei felice se riservassi lo stesso trattamento a Eva.»
«Mi ha chiamato Esme» replicò Ezra. «Quando mi ha visto, non le è nemmeno venuto il dubbio.»
«Ezra, dieci anni sono tanti per tutti.»
«Anche per i vampiri?»
«Non cercare scusanti che non reggono, giovanotto» l’avvertì Myrtle. «Eva è tua madre. Tu puoi essertelo dimenticato, ma lei no.»
«Vorrei essermi dimenticato tutto di questa città» ammise Ezra, poggiando il mento sulle braccia incrociate. Era più facile esprimere disprezzo che spiegare quell’emozione complessa che lo aveva portato a odiare quel posto con ogni fibra di sé, ma che non gli aveva impedito di desiderare di tornarvi ogni giorno degli ultimi dieci anni. Non aveva mai permesso a se stesso di indagare sulla fonte di quel desiderio.
Si voltò a guardare l’Eden, a cogliere tutti i dettagli del cambiamento che aveva preso forma durante la sua assenza. I tavolini erano stati cambiati – erano ancora in ferro battuto ma bianchi e non neri – i rami sul soffitto sembravano raddoppiati e non credeva di aver mai visto tanti fiori tutti insieme. «C’è di mezzo qualche magia?» domandò.
Myrtle scosse la testa. «Solo tanta dedizione» rispose. «Tua madre spera sempre che nasca qualche spiritello tra questi fiori. Ti piacevano da piccolo, vero?»
Ezra annuì distrattamente. Gli piacevano ancora e ne aveva cercati in ogni città in cui suo padre lo aveva trascinato per lavoro. A New York non ne aveva trovati e gli era dispiaciuto. Non era difficile parlare con creature empatiche per natura e incapaci di dare una loro opinione. Questo forse faceva di Ezra un codardo, ma il bambino che era stato non aveva trovato nessun altro per comunicare.
Esme era un’altra storia, una finita da tempo e piuttosto male.
La porta di ingresso che si apriva lo colse di sorpresa e, istintivamente, si voltò.
Myrtle accolse il nuovo cliente con entusiasmo. «Mi stavo preoccupando!» esclamò. «È quasi l’ora di pranzo, lo sai? Il motivo per cui faccio quasi sempre il turno di mattina è per assicurarmi che tu faccia colazione come si deve e-»
Ezra perse velocemente interesse per le parole di zia Myrtle, ma il giovane uomo che aveva appena varcato l’ingresso dell’Eden lo aveva tutto. Non perché avesse i capelli biondi, gli occhi azzurrissimi e due spalle che avrebbero fatto invidia al lupo mannaro che aveva trovato dietro al bancone al suo arrivo, ma perché lo fissava come un totale ebete.
«Qualcosa non va?» domandò Ezra, col chiaro intento di allontanare da sé l’attenzione del biondino.
«Oh, sì!» esclamò Myrtle. «Ci sono molte cose che non vanno. Tipo che ha trent’anni ma alle volte sembra più vecchio di me.»
Il ragazzo sbatté le palpebre un paio di volte e inarcò le sopracciglia. «Ezra?»
Fu il turno di Ezra di fare un’espressione inebetita. Esisteva qualcuno in quella città in grado di distinguerlo da Esme? Doveva conoscerlo bene, quindi l’osservò con più attenzione, studiò i dettagli e cercò di ricollegarli a qualche viso della sua infanzia che non fosse solo di passaggio.
Gli tornarono alla mente i pomeriggi d’estate passati nel bosco, la sua mano stretta in quella di un ragazzino più grande, con i capelli biondi. Entrambi cercavano Esme, che si era nascosto tra gli alberi per il puro gusto di essere dispettoso.
«Henry?» provò.
Alle sue spalle, dietro il bancone, Myrtle ridacchiò. «Visto, Ezra? Non tutta Tara si è dimenticata di te» disse. «Ti preparo il solito, Henry» aggiunse.
Ezra la sentì muoversi, udì un cassetto che si apriva e chiudeva e poi l’acqua scorrere nel lavandino ma non si voltò: Henry lo fissava ancora come se fosse un alieno.
O forse era il fatto che fosse un umano in una città di mostri a renderlo una mosca bianca?
«Sei… Sei cresciuto» commentò Henry.
Ezra dedusse che doveva essere una sorta di complimento uscito male. «Anche tu» la sua replica non gli fu di alcun aiuto.
«Rimani per il resto dell’estate?»
«Rimango e basta.»
Henry annuì. «Sei tornato…»
Ezra scrollò le spalle. «Così pare» rispose distrattamente, studiando l’immagine del giovane uomo che aveva davanti. A parte il colore degli occhi e dei capelli, non c’era nulla in lui del ragazzino troppo magro che si era premurato di tenere in vita lui ed Esme alla fine di ogni anno scolastico.
Per Ezra, Henry era stato sinonimo di estate. Veniva a casa loro con il bus, anche se dalla fermata più vicina era una passeggiata di quasi un chilometro. Ezra ricordava che quando varcava la porta, aveva sempre un libro tra le mani. Non era sicuro, ma forse era stato lui a suggerirgli di compensare la sua natura introversa attraverso le storie scritte. Era sempre stato più alto della media e questo gli aveva garantito il successo con tutte le ragazzine di Tara. Il fatto che fosse bravo negli sport come a scuola lo aveva salvato dall’essere perseguitato come un secchione.
Eppure, Ezra ricordava dei segni scuri sulla sua pelle sotto l’orlo dei pantaloncini e della t-shirt, simili a quelli con cui tornava a casa quando i bulli della scuola decidevano di fargli la festa.
«Da dove vieni?» domandò Henry, con un sorriso cortese.
Ezra aveva notato che lo squadrava con attenzione ma lui stava facendo lo stesso, così decise di non farglielo pesare. «New York.»
«Ah… Ero convinto che fossi rimasto in Europa.»
«Infatti, sono arrivato in America solo un anno fa.»
«Deve essere bello passare l’adolescenza in giro per il mondo.»
«Sì, come un girone infernale.»
Con quelle parole, Ezra lo gelò. Lo comprese dal modo in cui le labbra di Henry divennero una linea sottile. Alle elementari, Esme era già in grado di avere la meglio su di lui. Evidentemente non era cambiato: era rimasto bello e troppo gentile per rispondere a tono.
«Scusami, il jet-lag ha brutti effetti sul mio senso dell’umorismo» aggiunse Ezra, con una velata nota di sarcasmo. Si voltò a vedere che ne era stato di Myrtle e la trovò inginocchiata di fronte alla credenza a cercare una tazza d’asporto.
Un tonfo sordo lo spaventò e d’istinto tornò a guardare verso la porta d’ingresso. Henry non era più lì. O meglio, c’era ma a terra e dolorante.
Attirata dal baccano, Myrtle sospese la sua ricerca per sporgersi oltre il bancone. «Santo cielo, Henry!» esclamò, più irritata che preoccupata.
Lei non fece nulla per aiutare il nipote ed Ezra si sentì in dovere di farlo al suo posto.
«Va tutto bene?» domandò, poggiando un ginocchio a terra.
Henry annuì con lo sguardo basso e si sollevò in piedi senza accettare il suo aiuto. «Colpa dei lacci delle scarpe» disse con un sorriso imbarazzato.
«Possibile che tu non sappia ancora allacciarti le scarpe come si deve?» si lamentò Myrtle, poggiando vicino al lavandino una tazza di cartone con eccessiva forza.
«Strano…» Ezra sorrise, alleggerito dalla scena che si era appena consumata di fronte ai suoi occhi. «Ricordo che sei stato tu a insegnarmi ad allacciare le scarpe.»
Henry lo guardò sorpreso, poi si rilassò anche lui. «Ci sono riuscito solo con te.»
Ezra alzò gli occhi al cielo. «Esme non sopporta che non gli riesca qualcosa al primo tentativo… O meglio, non sopportava. Sono passati dieci anni, non ho idea di come sia adesso.»
«Come sempre, immagino» rispose Henry. «La persona più diversa da te che esista. È sempre stato così.»
Ezra sbatté le palpebre un paio di volte. Molte cose lo avevano preso di sorpreso da quando aveva rimesso piede a Tara ma quella era la prima che lo faceva in modo piacevole. «Sul serio?»
Henry aggrottò la fronte, fece per rispondergli poi qualcosa alle spalle di Ezra attirò il suo sguardo. «Zia, per favore» disse con tono implorante.
Quando si voltò a controllare la situazione dietro il bancone, Ezra trovò Myrtle che versava innocentemente il caffè appena fatto nella tazza d’asporto.
«Non ho aperto bocca» si difese la donna anziana, fingendo di cadere dalle nuvole.
«Tu non hai bisogno di parlare per dire qualcosa» replicò il nipote.
«Allora lascia che lo faccia adesso» disse Myrtle, poi sorrise all’indirizzo di Ezra. «Tesoro, ti piacerebbe andare alla Festa delle Stelle con questo qui? Sono passati molti anni dall’ultima volta che sei stato in città, magari ti farebbe comodo una guida.»
Ezra aprì e chiuse la bocca un paio di volte.
Henry corse in suo aiuto: «devo lavorare, zia.»
Myrtle alzò gli occhi al cielo. «Quando mai…» Chiuse la tazza con un coperchio di plastica per non far freddare o rovesciare il caffè. «Sai già quanto mi devi.»
Henry la fissò. «Sul serio, zia?»
«O mi rendi felice o ne paghi il prezzo» replicò la donna anziana. «Perché quella faccia? Ogni volta che passi durante il turno di notte ed Eva tenta di offrirti qualcosa, le lasci pure la mancia per il disturbo!»
Henry sospirò e cacciò la mano nella tasca interna della giacca per prendere il portafogli. Ezra si fece da parte per permettergli di pagare e tornò a sedersi su uno degli sgabelli del bancone.
«Ecco fatto!» Myrtle consegnò al nipote lo scontrino e il suo ordine. «Vieni a farti leggere i tarocchi dalla tua vecchia zia, stasera? Se la gioventù ti vede, si radunerà la folla davanti al banco di Eva.»
«Ti ho appena detto che devo lavorare questa sera, zia» rispose Henry.
Myrtle sbuffò. «Lavorare, sempre lavorare» si lamentò. «Non sarai giovane per sempre, ragazzo mio.»
Henry fece una faccia che Ezra conosceva bene: quella di un figlio – un nipote nel suo caso – che è stufo di sentire lo stesso ritornello dal proprio tutore, ma non ha nessuna intenzione di accontentarlo.
«Buona giornata, zia» concluse Henry democraticamente, chinandosi per darle un bacio sulla guancia. «Bentornato, Ezra» aggiunse.
Ezra gli rispose accennando un sorriso.
Prima di scomparire oltre la soglia, Henry si voltò un’ultima volta. «Oggi è la Festa della Stelle, quindi è anche il tuo compleanno, vero?»
Ezra inarcò il sopracciglio destro. «Ti ricordi anche questo?» Sorrise, un po’ divertito. «Io e mio fratello ti abbiamo traumatizzato così tanto, Henry?»
L’altro accettò la battuta sollevando gli angoli della bocca. «Allora buon compleanno, Ezra» disse e se ne andò.
Ezra lo guardò attraverso la vetrata e aspetto di vederlo scomparire lungo il marciapiede prima di voltarsi.
«Ti sei ricordato di quando faceva da babysitter a te ed Esme!» affermò Myrtle, con una strana soddisfazione negli occhi.
«Era terrorizzato da Esme» rammentò Ezra. Era solo una delle tante cose che gli erano tornate in mente, ma non voleva lasciar intravvedere troppo quanto gli aveva fatto piacere essere chiamato col suo nome.
«E ha continuato a badare a lui anche quando te ne sei andato» disse Myrtle, divertita.
Ezra si decise ad allontanare lo sguardo dall’ingresso dell’Eden per guardarla. «Che cosa fa adesso? Se non ricordo male, gli piacevano i libri. È un professore?»
Lo sguardo di Myrtle si fece malinconico. «No. Ha seguito le orme di suo padre. È un detective della sezione Crimini Soprannaturali.»
Ezra lo guardò con rinnovato interesse. «Lavora nella Supernatural Special Squad?»
«Nel settore la chiamano S3 per fare prima. Vi è entrato che aveva la tua età. Che c’è? È un lavoro che ti piacerebbe fare?»
Ezra cambiò argomento. «Leggi ancora i tarocchi, quindi?»
«Oh, sì, tesoro mio. È il dono che il destino mi ha fatto e se posso usarlo per allietare qualcuno, ne sono felice. Inoltre, è molto utile per attirare clientela.»
«Uhm… Uhm…»
«Non ci credi, vero? Ai tarocchi, intendo.»
«Parlo con le fate fin da quando ero bambino, non sono nessuno per giudicare.»
Myrtle annuì, riflettendo. «Aspetta qui» gli disse e sparì dietro la porta che dava sul retro. Tornò meno di un minuto dopo mischiando un mazzo di carte.
Ezra alzò gli occhi al cielo. Se lo sarebbe dovuto aspettare.
«Zia Myrtle, io-»
«Taglia il mazzo» disse Myrtle, poggiando i tarocchi al centro del bancone.
Troppo pigro per lanciarsi in una discussione da cui non sarebbe uscito vincitore, Ezra fece come gli era stato detto.
Myrtle unì le due metà. «Ora alza la prima carta, guardala e poggiala sul bancone senza farmela vedere.»
Ezra ubbidì svogliatamente.
«Ti ringrazio» disse Myrtle allegramente, poi sollevò la carta scelta. Il suo sorriso si spense come la fiamma di una candela investita da una folata di vento.
Ezra inarcò le sopracciglia, perplesso. «Zia Myrtle?»
La donna trasalì, come se avesse urlato. Una reazione del tutto esagerata.
«Scusami caro» disse Myrtle, forzando un sorriso gentile. «Siamo nel giorno del tuo compleanno e non avrei dovuto.» Recuperò il mazzo.
Ezra le afferrò il polso prima che potesse confondere la sua carta tra le altre. «Posso vedere?» domandò educatamente, ma con voce ferma.
Myrtle esitò, poi lasciò andare un sospiro. «In questo giorno dell’anno c’è molta energia intorno a te e questo luogo funge da cassa di risonanza per questo genere di fenomeni. Le carte possono essere influenzate e dare un messaggio fuorviante.»
«Non ho paura di venir fuorviato» replicò Ezra, lasciandola andare.
Myrtle strinse le labbra, poi scoprì la carta scelta sul bancone. «La Torre rovesciata.»
Ezra fissò l’immagine, studiandone i dettagli: un grande occhio azzurro lo fissava dalla parte superiore della cornice; sotto, era in corso una tempesta e un fulmine aveva colpito la cima della torre. Un uomo cadeva. Lo indicò: «questo qui mi rappresenta?»
Myrtle scosse la testa. «Non è così semplice» disse, poggiando il mazzo da una parte. «Per ogni carta vi è un significato positivo e uno negativo. La Torre rovesciata non è un buon presagio.»
«Che cosa significa?»
«Ezra, ti ho detto che non è il giorno propizio per-»
«Che cosa significa?» insistette il ragazzo.
Myrtle prese un respiro profondo. «Questa carta indica un grande cambiamento, uno di quelli da niente sarà più come prima.»
«Per capire questo non mi serviva una carta.»
«Il cambiamento non riguarda solo la tua situazione fisica ma anche quella emotiva.»
Ezra aggrottò la fronte. «Non mi spieghi nulla così.»
Myrtle passò la punta dell’indice sul bordo della carta, fissandone l’immagine come se la stesse inghiottendo. «Perderai te stesso sulla strada che hai scelto di percorrere. Non importa quanto sacrificherai. Sei un distruttore, non hai il potere di salvare nessuno. Neanche chi ami.»
Ezra sentì la gola chiudersi e la rabbia lo investì da capo a piedi. Guardò la carta poggiata sul bancone e dovette stringere i pugni per non afferrarla e farla a mille i pezzi.
Distruttore.
Quella parola lo tormentava dal giorno più oscuro della sua infanzia. Ora si sentiva come se la tempesta che si stava consumando in quella Torre si stesse scatenando anche dentro di lui.
«Ezra…» Myrtle chiamò il suo nome, ma lui non la udì.
L’occhio azzurro posto sulla parte superiore della carta si aprì e si chiuse. Ezra sgranò lo sguardo ma non riuscì a dare voce allo sgomento che gli chiudeva la gola. Le catene invisibili che lo tenevano fermo scomparvero nel momento in cui la pupilla si mosse per rispondere al suo sguardo. Ezra si ritrasse tanto bruscamente che lo sgabello cadde a terra.
«Mi spiace» disse, rimettendolo a posto frettolosamente. «Devo andare.»
Ezra sentiva l’aria venire meno. Non aveva un luogo dove andare ma doveva andarsene di lì e mettere tra sé e quella profezia infausta tutta la distanza fisica che poteva percorrere.
Mentre apriva la porta dell’Eden, Myrtle chiamò il suo nome più e più volte ma Ezra la ignorò.
Della Festa delle Stelle di Tara si poteva dire di tutto, tranne che fosse una sobria e tipica ricorrenza di paese. Non era grande e appariscente solo perché era il 50° anniversario, ma perché gli abitanti di Tara la aspettavano più del Natale o del Capodanno. Nata da principio dalla piccola comunità giapponese residente come condivisione di un evento di tradizione orientale – Tanabata – era diventata negli anni la celebrazione stessa dei principi fondanti della città. Gli sforzi per renderla ogni volta indimenticabile iniziavano appena un mese dopo la sua conclusione, per intensificarsi e diventare improrogabili man mano che il calendario scalava i giorni. Si arrivava al punto tale che un mese prima le decorazioni maggiori erano già montate e scintillanti nella notte, a tre settimane c’era il sold out definitivo dei biglietti per i turisti, a due non si parlava d’altro; ogni sforzo era catalizzato al renderla magnifica, così che la città ne risentiva un po’ sul piano di eventi nello stesso periodo, pressoché inesistenti, e non ci si svegliava e andava a dormire senza sentire almeno una volta qualcuno dire “Sta arrivando la Festa delle Stelle!”.
Esme ci aveva messo degli anni per riuscire a farsi piacere l’idea che il suo compleanno coincidesse con la medesima data. Non era mai un vero festeggiare se c’erano tutti, ma proprio tutti, amici, professori, conoscenti. Era come se non ci fosse nessuno. Con quella festa di mezzo, Esme non aveva la possibilità di scegliere da chi farsi festeggiare e a chi far capire, dal mancato invito, che non lo considerava nella propria cerchia. Per i quindici anni, Esme aveva disertato la Festa delle Stelle, tenendo il muso per giorni e ricavandone solo una notte in solitudine e rumorosa, con i fuochi d’artificio che illuminavano le tende tirate e una playlist che non riusciva a coprire i pensieri. Zach gli aveva portato la cena insieme a Zera, ed era finita con loro tre a girovagare sul web tra i video più idioti che riuscivano a trovare. Forse uno dei sette di Luglio che ricordava con più affetto.
Tuttavia, l’anno successivo Esme si era impuntato sull’idea che il suo compleanno fosse tanto importante quanto la Festa delle Stelle; così aveva iniziato a copiarne le mosse, cominciando a pianificarlo con mesi d’anticipo, strappando promesse alle persone quando non avevano ancora fissato tutti i loro appuntamenti, diventando una lagna con la storia del “è il mio compleanno! Posso fare quello che voglio!”. Aveva funzionato. In un modo o nell’altro, Esme riusciva a spuntarla: la maggior parte non si era più dimenticata di fargli gli auguri e anche il regalo, scherzando che fosse “la Festa delle Stelle e il compleanno di Esme Farrell”, a volte quasi come un sottotitolo alla ricorrenza cittadina, di quelli importanti, che ti spiegano di cosa tratterà la storia.
Nell’anno corrente Esme si era dato meno da fare. Compiva vent’anni, ma da uno pieno le cose erano cambiate. Fine del liceo, inizio dell’università, nuovi impegni, nuove routine insieme a quelle vecchie, un orizzonte un po’ più vasto, libero e incerto… insomma, vita da adulti, aveva avuto altro a cui pensare, per cui sì, c’erano stati sporadici tanti auguri e regali, ma nessuna vera e propria festa, se non quella che nella sua mente aveva concretizzato nel pranzo con Zach, dicendosi che sarebbe stato un compleanno da persona matura. Come svago si sarebbe poi goduto la Festa delle Stelle, concedendole la supremazia per quell’anno.
Di certo non era nella lista di Esme, neanche all’ultimo posto, il fatto che quel sette Luglio dovesse tornare nella sua vita anche suo fratello Ezra.
«Le persone normali mandano un messaggio» ruggì, chiudendo lo sportello della macchina di Zach concentradoci una buona dose del proprio maremoto interiore. «Ma no, lui non sa cosa sia la normalità! Informare gli altri che ha intenzione di tornare! Cosa pensava!? Di presentarsi qui e farsi accogliere a braccia aperte!?»
Zach non commentò il maltrattamento alla propria auto, un gesto che in altri momenti sarebbe costato a Esme un insulto e un ceffone in testa. Preferì il silenzio, perché non c’era altro che il suo ex fosse in grado di digerire in quel momento.
Il pranzo era stato forse la parentesi più pesante della giornata. I piatti del Chateau emanavano odori squisiti, ma Esme aveva impiegato il tempo in silenzio e a piluccare con ferocia nel piatto, in uno stridore fastidioso e controproducente.
Zach aveva provato a intavolare l’argomento “fratello”, aspettando l’ora per avviarsi alla piazza centrale di Tara, ma senza risultati di nota, non con Esme che aveva trasformato la successiva passeggiata in periferia in una specie di maratona scarica tensione. Alla fine, avevano ripreso la macchina e si erano avviati verso il centro, con i rimbrotti contro Ezra che si intensificavano di metro in metro.
«Sparisce per anni, manda a scatafascio una famiglia, e poi non si fa neanche sentire per tutto il giorno quando rimette piede qui!» riprese Esme, camminando senza guardare e costringendo Zach a tirarlo per il braccio più di una volta per evitare che finisse contro ostacoli vari. Nel mentre, l’ex lo ascoltava deflagrare le proprie illazioni, corroborate da una rabbia che non corrispondeva all’odore di agitazione che proveniva da lui, ma anche su questo tacque.
Negli anni, Zach si era fatto un’idea di cosa potesse essere successo all’interno della famiglia di Esme. Parlarne era una sorta di tabù; le sporadiche confessioni di Esme erano state punte di iceberg presto riconsegnate agli abissi. C’era un articolo di giornale che una volta aveva intravisto tra le sue cose personali, con il volto scarabocchiato di una donna, Andrea Farrell, l’altra madre di Esme (e Ezra. Pensare per pluralismi non era facile). Si parlava di un tentato omicidio, e una ricerca aveva confermato a Zach la vicenda. O almeno la parte ufficiale. Immaginava che il punto di rottura fosse stato lì, ma non aveva idea del ruolo che Ezra avesse avuto nel tutto, se non il disprezzo costante che Esme gli riversava addosso.
«… se pensa che potrà mettere piede in casa come gli pare si sbaglia! Non ce lo voglio nei miei spazi, nel mio bagno! Me ne vado io piuttosto!»
Zach non replicò a quell’ennesima affermazione servitagli su un piatto d’argento. Sarebbe stato un buon punto di inizio per sdramatizzare la situazione, prenderlo in giro, alleggerire la tensione che stava attanagliando anche lui.
Si sentiva come la sera precedente, quando aveva rifiutato Esme. Riconobbe più forte quello stesso sentore quando entrarono ufficialmente nel vivo della Festa delle Stelle, sotto un cielo ormai virato alla notte. L’aria era satura di un quantitativo di odori che avrebbero infastidito la maggior parte dei lupi mannari non abituati alla città – e in effetti il suo branco raramente prendeva parte a occasioni simili. Eppure, in mezzo a tutti, sopra a tutti, come una cupola, Zach aveva l’impressione che ci fosse qualcosa pronto a cadere. E quella sensazione aleggiava anche intorno a Esme, piacendogli sempre meno.
«… e se ora allo stand della mamma ci fosse anche lui!?»
Esme non aveva finito un attimo di parlare e Zach gli passò un braccio intorno al collo, tirandoselo addosso ma continuando a guardarsi intorno.
«Se fosse lì, ci sarei anche io» e lo disse con un tono morbido, senza sottigliezze, pieno di un sostegno schietto. Zach era anche questo e aiutò Esme a smorzare un poco la rigidità dei muscoli, ma non a farlo smettere di parlare.
«Non ti piacerà. Intendo Ez… mio fratello.» Non si capì se a Esme disgustasse di più pronunciarne il nome o il ruolo. «È un tipo poco socievole, che se ne sta sempre sulle sue e guarda male tutti. È brutale nei rapporti ed è uno spocchioso del cazzo.»
«Fino a brutale pensavo stessi descrivendo me» ridacchiò Zach, per la prima volta di gusto da quella mattina. «Ma la spocchia deve averla presa da te.»
«Non ti ci mettere anche tu! Qui la situazione è-»
«Tragica? Drammatica? Comunque la metti, dovrai affrontarla.»
Il tentativo di Esme di divincolarsi non funzionò, non quando a Zach bastava poco per superare la soglia di forza comune a un essere umano e attingere a quella della sua natura sovrannaturale.
«Mi metto a urlare che mi molesti.»
«Pensavo di fare la stessa cosa» lo rimbeccò Zach con un’allegria da ascia nascosta sotto la giacca, ma alla fine sciolse la presa, facendo però scivolare la propria mano in quella di Esme. «Siamo quasi arrivati.»
Lo stand dell’Eden era affollato di clienti conosciuti e stranieri. Eva era indaffarata a servire una richiesta dopo l’altra, il sorriso un po’ distratto ma sempre presente. Gli occhi di Esme vagarono sulle teste dei presenti, sui visi che riusciva a intravedere nella calca, buttò un’occhiata anche all’interno della bancarella, sondandone le zone poco illuminate.
«Non è qui.»
A dirlo furono Zach e i suoi sensi. Anche se aveva sentito l’odore di Ezra solo quella mattina per la prima volta, lo aveva registrato come il pensiero martellante che era stato poi per tutta la giornata.
«Allora andiamo» mormorò Esme e Zach si sentì tirare dalla presa delle loro dita intrecciate, puntando di nuovo alla fiumana di persone che intasavano la festa. Allo sguardo sorpreso dell’ex, replicò con uno sbuffo. «Se ci fermiamo, mamma vorrà parlarne e io non ho voglia di sentire il suo entusiasmo per il ritorno del figliol prodigo. Andiamo a divertirci, voglio stordirmi. Rimane il mio compl-» ma si bloccò per colpa di un pensiero che sgusciò prepotente davanti agli altri, ricordandogli che ora era meglio riferirsi al loro compleanno. «Vaffanculo.»
Prigioniero dei propri pensieri, Ezra aveva passato il resto del pomeriggio a vagare per la città. Più di una volta qualcuno lungo la strada lo aveva guardato in faccia con curiosità e lo aveva avvicinato con un perplesso: «Esme?»
Non aveva perso tempo a correggere nessuno, si era limitato a scuotere la testa e una volta arrivato a cinque, aveva tirato su il cappuccio della felpa per coprirsi il viso il più possibile.
Aveva camminato e camminato, fino a che il sole non era sparito oltre l’orizzonte e le mille lucine dorate appese per tutta la città non si erano accese.
Dirigersi in spiaggia era stata la sua idea per evitare la parte peggiore del caos, invece era finito col ritrovarsi in mezzo alla gioventù bruciata di Tara. Man mano che si avvicinava al mare, la confusione che lo circondava cambiava forma: le urla dei bambini venivano sostituite da quelle di adolescenti già ubriachi all’ora di cena e camminare diveniva più difficile perché tutti si muovevano in modo molesto, come se non vi fosse nessun altro intorno.
Ezra odiava le feste, odiava le folle, odiava il caos provocato dal consumo libero dell’alcool. Non era un moralista, aveva avuto delle sbornie in vita sua, ma non aveva mai tediato nessuno per quello.
Sebbene con il calar del sole la temperatura fosse diminuita, l’aria era irrespirabile e la felpa che aveva addosso si era fatta troppo stretta. Non se la sarebbe tolta: non poteva rischiare che un altro sconosciuto lo guardasse come se fosse un alieno per poi chiamarlo con il nome di suo fratello.
Aveva intenzione di vagare fino alla fine della festa per poi tornare all’Eden e implorare Eva di portarlo a casa? Non lo sapeva nemmeno lui. Era uscito da lì in un moto istintivo e non si era preoccupato del fatto che quella fosse la notte peggiore per vivere in quella città. Per poi tralasciare i ricordi che evocava, quelli erano la parte peggiore.
La notte della Festa delle Stelle di dieci anni prima era l’ultimo ricordo felice che Ezra aveva di Tara e anche della sua infanzia. Ricordava di aver passato la maggior parte del tempo sulle spalle di suo padre – anche se era troppo grande per pretendere simili attenzioni – e che Esme se ne era lamentato per tutto il tempo, con una mano stretta tra le dita di Eva e l’altra tra quelle di Andrea. Ezra poteva ancora vedere il viso sorridente della prima e quello stanco e pallido della seconda.
Ad alta voce chiunque era bravo a dire che tutti i figli si amano allo stesso modo. La famiglia di Ezra raccontava una storia ben diversa: lui era sempre stato figlio di Lucan ed Esme di Eva. Andrea li aveva dati alla luce ed era stata distante e affettuosa a momenti alterni con entrambi. Quando era arrivato il momento di distruggere tutto, li aveva trattati a pari merito e non aveva risparmiato nessuno – Eva e Lucan compresi.
Se c’era stato qualcosa di bello a Tara, ed Ezra sapeva che c’era stato, l’orrore che si era consumato a casa loro dodici anni prima lo aveva cancellato.
Distruttore.
Si era guadagnato quel titolo a causa degli attacchi di rabbia che avevano fatto ammattire tutti i suoi insegnanti, ma dei bulli che gli avevano rovinato le elementari non aveva mai parlato nessuno. Decine di voci avevano pronunciato quella parola al suo indirizzo, ma solo l’eco di una era rimasta a rimbalzare contro le pareti della sua mente: apparteneva a una donna ma non era a lui che si era rivolto.
Andò a sbattere contro qualcuno e per poco non cadde all’indietro. Per sua fortuna, l’altro ebbe i riflessi abbastanza pronti da afferrarlo per le spalle e aiutarlo a mantenere l’equilibrio.
«Scusami» borbottò Ezra, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Non guardavo dove andavo.»
«Gomen» disse l’altro con un sorriso gentile.
Ezra sollevò lo sguardo: indossava uno Yukata blu scuro, aveva i capelli neri e gli occhi a mandorla erano dello stesso color dell’oro. Notò le code che gli spuntavano da dietro la schiena solo in un secondo momento.
Il giovane sconosciuto lo studiò con altrettanta attenzione. «Va tutto bene, Esme-chan?»
Eccone un altro. Ezra prese un respiro profondo e fece appello a tutta la sua pazienza. «Non sono Esme» disse, solo perché quello sconosciuto gli aveva evitato una rovinosa caduta a terra.
L’altro inarcò le sopracciglia. «E chi altro dovresti essere?»
Ezra si aggiustò il cappuccio sopra la testa prima che qualcun altro potesse notare la somiglianza. «Devo andare, scusami ancora.»
S’infilò le mani nelle tasche della felpa e continuò a camminare. Forse doveva cercare il banco di Eva e aspettare che lei finisse di lavorare? Sbuffò, irritato con se stesso: per quel che ne sapeva, sua madre poteva lavorare in piazza, dalla parte opposta della fiera.
Più pensava al modo in cui era fuggito dall’Eden e più si sentiva un idiota.
Una carta. Si era lasciato condizionare del significato di una carta. Certo, Myrtle Bryne non era una donna comune, bastava pensare all’antica stirpe di Veggenti da cui discendeva, ma era stata la prima a dissuaderlo dal credere al messaggio dei tarocchi.
Distruttore. Era stata quella parola ad annebbiare completamente la sua ragione, a riportarlo a quella notte dei suoi otto anni in cui aveva quasi perso Esme ed era finito con l’essere privato di tutto.
Un gruppo di ragazzine urlanti per poco non lo investì. Concluse che non avrebbe risolto niente vagando in mezzo alla folla. Si alzò sulle punte, trovò la fila di luci dorate che correvano sopra le bancarelle e puntò nella loro direzione. Avrebbe fatto a uno standista il nome di Eva e dell’Eden nella speranza che sapesse almeno indicargli la zona della fiera in cui aveva più possibilità di trovare sua madre.
Era a meno di dieci metri da un banco ricoperto di libri antichi, quando un altro ragazzo gli venne addosso e questa volta non ci fu nulla a tenerlo in piedi.
Ezra cadde sul di dietro e l’altro sulle ginocchia. Lo fissò con le labbra strette e un cipiglio sul viso: il suo primo istinto fu di aggredirlo e biasimarlo completamente per quell’incidente. Tuttavia, non poteva negare a se stesso di avere la testa da un’altra parte e di non essersi preoccupato particolarmente di guardare dove metteva i piedi.
«Ti sei fatto male?» domandò un po’ scocciato. Non si era mai considerato gentile e non aveva ragioni di fingere di esserlo con uno sconosciuto.
Il ragazzo scosse la testa frettolosamente, lo sguardo fisso a terra, come se avesse paura di guardarlo negli occhi. Tremava.
Ezra avvertì lo sguardo di altre persone su di sé: gente che aveva assistito alla caduta ma che non si stava affatto disturbando per dare una mano. Quel ragazzo, però, sembrava averne un disperato bisogno.
«Ehi…» mormorò Ezra, allungandosi per stringergli la spalla. «Non ti senti bene?» Non si era scontrati con tanta forza da poter giustificare una reazione del genere.
Il ragazzo gli artigliò il polso e sollevò il viso di colpo. Era pallido, scavato e incorniciato da capelli tanto chiari d’apparire argentei.
Ezra rabbrividì nel guardarlo negli occhi: non avevano le pupille ed era come se al loro interno vi fosse una nube grigia, vorticante. Si ritrasse ma la presa dell’altro era ferrea.
«Distruttore» sibilò, come un serpente.
Ezra gelò e fu incapace di combattere ulteriormente la stretta di quella mano estranea.
«Nella tua folle impresa per ritrovare ciò che hai perduto finirai per annientare te stesso. Non hai il potere di proteggere. La tua natura non è quella di un salvatore. Distruttore! Nel tuo fallimento rinascerai, ma non otterrai ciò che desideri.»
Il ragazzo lo lasciò andare. Ezra strisciò sull’erba allontanandosi di un paio di metri.
Quando i loro sguardi s’incrociarono di nuovo, quegli occhi spettrali erano spariti per lasciare il posto a un paio grandi e impauriti. Lo sconosciuto assomigliava a un bambino spaventato, ma Ezra non era una creatura magnanima, non ebbe pietà di lui una seconda volta. «Che cazzo… Che cazzo stai dicendo!?» urlò tirandosi in piedi, senza preoccupandosi di star dando spettacolo. «Come osi mettermi le mani addosso!?»
Il ragazzo era ancora a terra, spaventato. Non riusciva a parlare.
«Perché mi hai chiamato in quel modo?» Ezra sapeva che la persona che aveva davanti doveva avere qualche potere di preveggenza, ma non ne poteva più di essere apostrofato in quel modo. «Dimmi perché cazzo mi hai chiamato in quel modo?»
Fece per dargli un pugno ma il colpo non andò mai a segno.
Non era strano che durante la Festa delle Stelle si formassero capannelli di gente che ostruivano il passaggio. Fuori luogo era sentire una voce estranea a tutti, meno che all’ultima persona che avrebbe voluta sentirla, e che la riconobbe anche dopo così tanto tempo e nonostante il cambio del timbro. Alla fine, era simile alla sua.
La scena non fu bella, dopo che Esme si fu fatto strada nella calca. Non con Ezra che si ergeva su Edmund Sheer, le dita di una mano strette alla sua maglietta e quelle dell’altra chiuse a pugno. Esme si accorse di averlo fermato solo quando il suo nome gli sciolse le corde vocali, liberando un impasse fermo da anni. Urlo Ezra così forte da assordare se stesso e tacitare il brusio e i richiami della folla.
Tara alla fine rimaneva una piccola città. Esme se la sentì addosso al completo, tutta in un’unica occhiata che iniziò nella critica e finì nello stupore. Nello stupore di osservare due volti pressoché uguali, come due maschere da teatro: su una una rabbia cieca e sull’altra un’angoscia che aveva radici profonde.
Il cuore di Esme stava per soffocarlo. Le occhiate, le voci, le mani strette intorno a una pelle tiepida di cui aveva rimosso il ricordo per sopravvivenza, la consapevolezza che tutto quello che aveva accatastato in un angolo fosse appena caduto in terra dentro di sé, sparpagliando cocci di ricordi capaci di parlare simultaneamente fino ad assordarlo. Se questo non bastava, non sapeva dove guardare senza incontrare un viso che non conoscesse. C’era ancora Edmund – Occhio Pazzo – lì in terra, vittima di se stesso, che lo fissava come se anche lui fosse colpevole. Vide Saga tra due teste, i suoi occhi dorarti brillanti, curiosi come la volpe che era; c’era Bastian, probabilmente l’ultima persona al mondo che Esme si aspettava lì e che li osservava interdetto; c’era anche Kane, che dalla notte precedente non si faceva sentire ed Esme non avrebbe voluto rivederlo in quella circostanza. Perfino Zach ora faceva parte di quella sequela di volti, troppi volti che li divoravano con gli occhi come fossero stati l’attrazione principale della Festa delle Stelle.
I gemelli Farrell. I poveri, piccoli, sfortunati bambini di una madre figlicida, di un’altra dal sangue freddo e di un padre troppo occupato dal lavoro. Sguardi che parlavano come i titoli di giornale di dodici anni prima.
Nello stomaco di Esme qualcosa si contrasse così dolorosamente da smuoverlo.
Strattonò Ezra con la presa più ferrea che aveva, forte della disperazione di volersene andare da lì. Non si preoccupò di sbattere contro gli assiepati alle sue spalle, di farsi largo nel fango di occhiate che minavano la sua stabilità.
Ezra non gli rese facile quella ritirata. Si impuntò, strattonò, berciò insulti e imperativi, ma se Esme chiudeva fuori sguardi e voci lo faceva con tutti, nessuno escluso. Anche quando il peso di trascinare via il gemello si dimezzò, Esme registrò a malapena la presenza di Zach e il baccagliare che ne seguì.
Fu solo quando l’aria diventò più libera di odori e piena di fresca umidità e salsedine, sotto un cielo blu limpido, a Esme sembrò di poter tornare a respirare. Si riempì i polmoni fino al limite massimo della propria gabbia toracica. E poi esplose.
«Tu sei un maledetto figlio di puttana! Sei un coglione senza cervello!» urlò così forte che il rumore baritono della scogliera scomparve per qualche istante. Le sue mani spintonarono Ezra con una forza che Zach non gli aveva mai visto. «Chi ti ha detto che potevi tornare!? Chi ti ha detto che ti volevamo qui!?»
Nonostante lo sguardo di Ezra fosse ridotto a due pupille nere che si erano mangiate tutto il verde dorato dei suoi occhi, e stesse ansimando incapace di trattenere l’aria, non rispose. La bocca gli tremava; il labbro superiore scattava come se da un momento all’altro avesse voluto replicare con un morso. Artigliò il vuoto fino a serrare le dita, ma privo di qualsiasi intenzione bellicosa.
L’assenza di risposte e il prolungato silenzio non aiutarono nessuno dei due a sbollire, tuttavia diede tempo a entrambi per osservarsi. Si erano lasciati bambini, ben lontani dall’adolescenza, e si ritrovavano adulti.
Se nella propria mente Esme aveva tentato più volte di distruggere le immagini di Ezra, avendo comunque il suo fantasma a seguirlo ogni volta che si guarda in una superficie riflettente, ritrovarlo reale ebbe un impatto meno frastornante di quel che avesse immaginato.
Sì, erano gemelli, ma erano diventati simili, non più uguali. Il calco poteva essere stato il medesimo, ma se una volta giocavano su quella somiglianza, complici insieme nel provocare confusione nei grandi, ora non sarebbe potuto essere così di nuovo. E non era questione di capelli, ricci o tinti, o di modi di vestire differenti.
Semplicemente, Esme non ritrovò più l’Ezra che lo aveva lasciato. Se c’era ancora, lì da qualche parte dentro quei fasci di nervi che avevano quasi picchiato un ragazzino sedicenne, Esme non voleva saperlo. Non voleva riaprire nessuna valigia, nessun album, nessuna ferita che portasse il suo nome. Non ci avrebbe speso né altre proteste, né emozioni, anche se si stava stringendo il polso sinistro, all’altezza dell’unica cicatrice che tale sarebbe rimasta, senza poter essere guarita.
«Non ti voglio qui, Ezra. Vattene.»
Anche se lo disse a lui, quello che iniziò ad allontanarsi, a superarlo, fu Esme. A volerlo lasciare indietro, lì, come un brutto sogno che al mattina si sarebbe dissipato, come un grumo di sensazioni spiacevoli che a poco poco diventa polvere.
Fu passandogli accanto, quando la mano di Ezra lo afferrò per il braccio, che qualsiasi speranza si stesse formando trovò una pietra che la ancorò alla realtà.
«Non me ne vado.» Ezra lo disse col suono di una promessa e le unghie lasciarono il segno sulla pelle del fratello. «Fattene una ragione, Esme! Non me ne vado!»
Edmund Sheer aveva sedici anni e non aveva mai vissuto davvero.
Non era nato a Tara, ma a Dublino. Il destino gli aveva fatto il dono della preveggenza pur avendo genitori completamente umani. Questo suo potere li aveva costretti a trasferirsi, a cambiare lavoro e a ricominciare da capo. I suoi genitori avevano evitato di biasimarlo ad alta voce ma nei loro sguardi aveva trovato tutte le accuse di consapevolezza del caso. I danni c’erano stati e avevano avuto delle violente ripercussioni emotive che, raggiunta l’esasperazione, si erano concretizzate in un divorzio. Il dono aveva permesso a Edmund di vedere anche quello, di sapere ciò che i suoi genitori gli avrebbero detto ancora prima di sedersi al centro del divano e guardarli negli occhi.
In cuor suo aveva sperato che quella malattia – perché non era possibile definirla un dono – se ne andasse improvvisamente come era arrivata.
Edmund non era bello, non era carismatico. Era solo un veggente nato nella famiglia sbagliata, privo di qualsiasi guida che lo aiutasse ad accettare se stesso.
Per i suoi genitori, Tara era stata la soluzione migliore per lui, per garantirgli un ambiente dove potesse essere capito. Avevano commesso uno sbaglio: quella città non era l’oasi di pace di cui molti raccontavano a Dublino. L’odio per il diverso era arrivato anche lì, era scivolato come un essere viscido sotto le porte delle scuole e aveva messo radici nei cuori di chi trovava appagamento nell’umiliare gli altri.
Edmund era quello nuovo, un facile bersaglio per i bulli. Negli anni, era divenuto solo un’abitudine. Non serviva una ragione valida per essere crudeli, bastava averne voglia.
Così Edmund era arrivato ai suoi sedici anni senza un amico, in compagnia degli incubi che lo avvisavano per tempo che non aveva ragione di sperare: non c’era nessuna luce nel suo futuro.
Le cose erano peggiorate poco prima dell’estate: i suoi incubi erano divenuti più cupi, più macabri. Le immagini che prima lo facevano svegliare in lacrime, ora gli spezzavano il respiro e gli lasciavano addosso una strana sensazione di morte simile a quella degli attacchi di panico. In poche settimane aveva smesso di andare a scuola, poi di uscire di casa. Solo quando sua madre lo lasciava per molte ore e la solitudine sembrava minacciarlo dagli angoli più bui della sua casa, Edmund usciva, camminava dove c’era gente, in luoghi in cui era certo che nessuno gli avrebbe fatto del male.
Perché di questo aveva paura, che un mostro uscisse dall’oscurità e lo afferrasse senza lasciargli scampo.
Fu per esasperazione che la notte della Festa delle Stelle sua madre lo lasciò solo, ignorando le sue preghiere di restare a casa con lui. Se Edmund non voleva vivere, non aveva il diritto di pretendere che lei facesse lo stesso.
Così Edmund rimase da solo con la sua paranoia, saltando ogni volta che il motorino del frigorifero ripartiva o udiva uno scricchiolio al piano di sopra. I demoni nella sua testa lo divorarono lentamente per tutto il pomeriggio e a nulla servì coprire il silenzio con il suo vecchio lettore per CD. Fu quando credette di essere sull’orlo della follia più nera che uscì di casa correndo, quasi stesse scappando da qualcosa.
Andò alla festa, si mimitizzò tra la folla e fu lì che il destino gli fece ancora una volta lo sgambetto e lo fece scontrare con Ezra Farrell.
Non udì nemmeno le parole che propria bocca pronunciò ma seppe che erano sbagliate dal modo in cui l’altro lo minacciò. Non ebbe il coraggio di spiegare o di chiedere scusa: sentiva che avrebbe dovuto farlo solo perché era nato.
Ezra non lo colpì solo grazie all’intervento di qualcuno. Edmund non rimase per sapere chi.
Tutti lo avevano visto e l’intera Tara avrebbe parlato e riso di lui l’indomani. La cinquantesima edizione della Festa delle Stelle sarebbe stata ricordata come quella in cui Edmund si era quasi fatto picchiare in pubblica piazza. Sua madre non avrebbe detto niente come al solito, ma si sarebbe vergognata di lui in silenzio.
Corse via piangendo. Si lasciò la folla alle spalle perché era chiaro che nessuno avrebbe mosso un dito se qualcuno gli avesse messo le mani addosso.
I suoi piedi lo portarono lontano dalla festa, sulla strada che costeggiava la foresta, verso casa.
I fuochi d’artificio illuminarono il cielo di Tara quando Edmund era già lontano dal caos. La poca gente che gli era intorno sollevò lo sguardo incantata. Non lo notarono mentre passava a pochi metri da loro, non videro il mostro che emergeva dal buio tra gli alberi e lo afferrava. A causa del rumore provocato dai fuochi pirotecnici non udirono nemmeno le grida.
Edmund non riuscì a reggersi sulla gambe. Il braccio che lo tirava era forte e lo trascinò sul terreno erboso della foresta, lontano dalla gente e dalle luci. Il ragazzo cercò di sollevare lo sguardo per identificare il suo aggressore, ma il buio lo ammantava come un mantello e riuscì a distinguere solo le chiome immobili e spettrali degli alberi.
Quando venne gettato a terra, Edmund sentiva il sangue che gli martellava nelle orecchie. Non si voltò, ebbe paura di guardare in faccia la morte, quella da cui i suoi incubi lo avevano messo in guardia. Sollevò lo sguardo, riconobbe l’insegna spenta del Devil Devil e urlò a squarciagola per chiedere aiuto. Erano tutti alla festa, nessuno poteva salvarlo.
Il mostro fu sordo alla sua disperazione.
Lo privò degli occhi, poi della vita.
A Edmund non fu concessa nemmeno l’amara consolazione di guardare le stelle mentre moriva.
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Nene&Marta
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